Canti del caos

“Canti del caos” è un’opera di narrativa italiana, scritta da Antonio Moresco, capace di iscriversi al casellario dei grandi capolavori e di alzare l’asticella del mondo libresco creando nuovi paradigmi di narrazione e di linguaggio, al pari di altri grandi libri come, ad esempio, Abbacinante di Cartarescu o l’Ulisse di Joyce.


 

Il libro, uscito in tre versioni e concluso solamente nel 2009, ha richiesto all’autore quindici anni di preparazione prima di arrivare alla versione finale. La trama iniziale, apparentemente semplice, narra di un editore noto come il Gatto che dopo continui sberleffi convince uno scrittore, soprannominato il Matto, a scrivere un capolavoro capace di segnare l’umanità. Lo scrittore si mette quindi a lavoro ma l’editore lo interrompe continuamente: ogni prevaricazione riguarda possibili strategie di marketing per il lancio del libro, dall’editing alla forma grafica. A questo punto la trama comincia a seguire un percorso frattale senza logica, in cui i personaggi delle vicende diventano narratori a loro volta, creando ulteriormente altre storie. Nascono diverse linee narrative: il libro del Matto, un softwarista che programma un videogioco mondo, l’ispettore Lanza che indaga la scomparsa di una donna, … Gli avvenimenti deflagrano uno dentro l’altro e si cominciano a mischiare gradi di narrazione, un protagonista narrato diventa subito dopo l’inventore di una nuova storia, fino a far coinvolgere tutto sullo stesso piano.

Ci presentiamo: io sono il Matto, tutto ricoperto di ferite, ematomi, trasportato fin qui attraverso un’unica ellissi, io sono quella puttana della Musa, dal corpo aperto, creativo, tagliato, io sono il donatore di seme e softwarista, io sono l’infantile Lanza, io sono il vecchio dalla paresi masturbatoria, io sono la donna che trema, io sono il ginecologo spastico che rende spastico lo spazio e il tempo, io sono Principessa, io sono la donna amputata, io sono la bambina che vede il cielo diventare bianco, io sono l’uomo che incendia le spore... Siamo tutti qui, indistinguibili, nell’oscurità più profonda, oltrepassati, al tuo fianco. Non ci riusciamo neanche più a vedere l’un l’altro nella luce immobilizzata. Anche le nostre voci sono immobilizzate, passate oltre il falso movimento dell’economia e della narrazione privata dell’illusione e della consolazione dello spazio e del tempo. Siamo già tutti là, siamo qui. Anche tu sei già qui. Non possiamo neanche aspettarti perché sei già qui

Ogni vicenda ci viene presentata in maniera aulica come un Canto, ma nella maggior parte dei casi quello che emerge è un ritratto fortemente pessimista dell’umanità, composto da violenza carnale, snuff movie, e degradazione umana. Ogni particolare scabroso, ogni aberrazione morale e fisica viene descritta nel dettaglio da Moresco, che non lesina nulla all’immaginazione del lettore.

Nella seconda parte del libro, la maggior parte dei personaggi presentati nella prima, si ritrova ad un brief pubblicitario, in cui un’agenzia di marketing è incaricata da Dio in persona di elaborare una campagna per poter vendere il pianeta. La violenza è quindi da intendersi come un motivo per Dio per lasciar andare la sua opera, irritato dal comportamento umano.

Moresco rilancia ancora: altri personaggi entrano in scena e nessuno viene dimenticato, tutto è pianificato per arrivare al culmine finale della terza parte. Al momento di massima suspence Dio ferma il tempo e dà modo a Moresco di sviluppare una lingua in cui non esiste una consecutio temporum, ma ogni vicenda si sovrappone, senza un prima o un dopo. In questo linguaggio sperimentale, le vicende arrivano alla fatale conclusione. L’increazione inventata da Moresco nella trama viene resa dall’autore tramite il linguaggio, che si complica ad oltranza in una miriade di tempi verbali e di forme soggetto. La terza parte, sicuramente quella più sperimentale, risulta anche la più difficile da leggere.

In mezzo a tutte queste parole sempre più ripetute, ritmiche, sfracellate. A tutti questi blocchi narrativi sempre più travolgenti e stridenti, tra queste correnti seminali travolgenti e immobili. Mentre ogni cosa sta andando verso uno scardinamento di tutte le possibili strutture narrative e temporali e spaziali e l’unico possibile movimento, che è affiorato sbarazzandosi delle carcasse mentali e linguistiche disattivate, è lo spaventoso e portentoso e drammatico e scatenato e selvaggio e lirico ritmo di questa irresistibile avanzata seminale orientale.

   Parole che si ripetono e che si concentrano e che si fracassano, vanno in pezzi i tempi verbali e le loro possibilità spaziotemporali, frasi duplicate, concentrate, martellate, sfasciate, dialoghi anticipati, increati, predialoghi senza ancora supporto fonetico a venire. Perché tutto questo? Non l’avete ancora capito? È perché anche le strutture del discorso e le poltiglie verbali si stanno agglutinando sempre più, si concentrano, mentre stanno andando anche loro a sbattere e a sfracellarsi contro il muro di tempo e spazio immobilizzati.

Moresco stesso si diverte ad infilarsi in prima persona nella narrazione, prima di venire ferocemente cacciato via dai suoi stessi personaggi che ormai dominano in maniera autonoma le vicende.

Non ho quasi mai parlato, qui dentro, non ho mai cantato. Ho lasciato cantare gli altri. Me ne sono stato quasi sempre in silenzio, nascosto, assente. Anche per me spazio e tempo si sono immobilizzati. Anch’io sono stato separato violentemente dalla mia ombra. Non mi resta che presentarmi direttamente per quello che sono, all’inizio di questo canto: il mio nome è Antonio Moresco, a questo punto, qui dentro. Sto scrivendo da molti anni quest’opera che tutti rivendicano come propria. Adesso ho cinquantotto anni. Non credevo di arrivare a questa età. Non ero stato programmato, non ci ero portato. Volevo solo crepare. Mi sono inventato degli azzardi continui, dei sogni, per poter continuare a vivere. Anche se volevo solo crepare. Una parte di me è stata costretta a vivere, in questa epoca spaventosa, immobilizzata e creata. Un’altra parte voleva solo crepare. È così che sono stato dentro la vita, e anche dentro quella cosa che è stata chiamata letteratura: per farla vivere e per farla crepare. Per farla crepare e per farla vivere. È questa lacerazione che ho portato, ho riportato e incarnato anche dentro la letteratura

Canti del caos rappresenta una vera sfida verso l’impianto del romanzo ma soprattutto verso i lettori, invitati ad entrare in un mondo o meglio in degli universi narrativi complessi e frastagliati. La complessità della lettura è compensata da una scrittura egregia e da alcuni protagonisti delineati alla perfezione, dalla Musa alla ragazza senza assorbente, fino all’investitore.  Una sintesi puntuale delle vicende sarebbe superflua, in quanto il vero divertimento consiste nel lasciarsi andare nel ginepraio della narrazione. L’opera, leggibile anche singolarmente, fa parte di una trilogia di oltre tremila pagine, composta dal prequel “Gli esordi” e dalla conclusione “Gli increati”.

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