Aprire il fuoco

La storia la scrivono i vincitori e ai perdenti non rimane che accettarne la narrazione, o al massimo darne versioni apocrife. Capita soprattutto nelle rivoluzioni ed è proprio questo il caso di “Aprire il fuoco”, ultimo romanzo di Luciano Bianciardi.

Il libro narra di un ex letterato, che si è rintanato in un paesino ligure per sfuggire ai suoi vecchi ricordi di Milano; l’io narrante si adegua a fare da pedagogo a dei bambini, ma passa le sue giornate con lo sguardo rivolto all’orizzonte, in cerca di un segno della sua vecchia vita. Il passato per lui è l’aver aderito ad una sommossa popolare nella città meneghina ed esserne uscito sconfitto e perseguitato.

“Se mandano qui un altro aguzzino, io sono pronto ad aprire il fuoco”

I segni della sua afflizione sono materiali prima che psicologici, gli è stato tolto tutto da quelli che erano seduti dalla parte vincente della storia, e a lui non rimane che raccogliere le sue lacrime per quello che non è stato. La sua vicenda è quella ucronica delle cinque giornate di Milano, che Bianciardi colloca in un fittizio 1969. Il popolo, iniziando con piccoli tafferugli si organizza per liberare la città dall’oppressione austriaca. Il racconto si rivela una descrizione dettagliata degli eventi, dalla paura verso la violenza imminente fino alle prospettive del futuro. Ma è un futuro che non si realizza, lo si sa già dall’inizio del romanzo, quando il protagonista ci descrive le sue pene. Il fulcro del romanzo risiede nell’analisi della sconfitta, nelle cause che hanno portato a vanificare tutti gli sforzi e nei rimorsi che si hanno verso una rivoluzione fallita.

"Credere che la rivoluzione possa e debba dar luogo ad un ordine nuovo è così resistere. La rivoluzione, se vuol resistere, deve restare rivoluzione. Se diventa governo è già fallita."

Bianciardi firma un romanzo bruciante, in cui la penna graffia la pagina per raccontare un fallimento politico, antesignano di tante battaglie future. Un libro sicuramente da riscoprire.

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