Solenoide

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Ogni azione conduce ad una reazione, ad ogni bivio corrisponde una scelta, nostra o altrui, che determina una via. Ma cosa rimane del non scelto, del non agito? Quali sono le infinite possibilità che nella nostra vita non percorriamo? E a cosa avrebbero portato? Tutte queste sono domande fondamentali che Mircea Cărtărescu si pone nella sua ultima opera “Solenoide”.

La trama, per quel che può contare in un libro del genere, parte da una struttura apparentemente semplice per chi conosce già la scrittura acrobatica dell’autore rumeno. Il protagonista senza nome è un giovane professore della Bucarest anni ’80 che, affranto dalla sua vita, passa le giornate ad insegnare senza obiettivi e senza reali interessi. La sua grande delusione, che gli ha cambiato la vita inaridendo il suo slancio vitale, è stata il suo primo reading di poesia, in cui al posto dell’acclamazione che si augurava, è stato oggetto di derisione. Una sliding door quindi, che separa l’autore di successo reale, da quello che è scaturito nella finzione narrativa. Cărtărescu, si immagina un doppelganger in un universo parallelo, dove la carriera da scrittore è fallita sin dagli esordi e l’insegnamento è rimasta l’unica alternativa.

la scrittura è palinsesto, è raschiatura di una pagina che contiene già tutto, è svelamento dei segni e delle buccole portati per la prima volta alla luce

Questo personaggio vive in uno stato di alienazione sin dalla gioventù e cerca, scrivendo il suo diario, di ricomporre tramite la forma scritta i sentieri e le scelte della sua vita. Il suo straniamento è assoluto, si perde per le vie di Bucarest, diroccate e tristi, simbolo di una malinconia primigenia, per i corridoi della sua scuola, eterno labirinto senza fine. Si perde persino nella casa che compra, simbolo assoluto di dispersione inspiegabile, che modifica al suo interno le stanze creandone sempre di nuove.

Il protagonista vive una vita anonima, fatta di piccole discussioni con i colleghi professori e di infiniti viaggi di tram per andare e tornare dal lavoro. Su questo strato superficiale piatto si innesta la scrittura visionaria e onirica dell’autore, che riesce a tramutare la storia, distorcendola e assoggettandola a sogni, allucinazioni, paure e incubi del protagonista. Ogni avvenimento può essere il segnale e l’opportunità per strappare il velo della realtà e comprendere un lato nascosto, una sorta di trip psichedelico involontario, i cui effetti pervadono le pagine. Questa struttura nel libro si innesta ripetutamente, alternando visioni in cui l’autore preme il piede sull’acceleratore della sua scrittura, ad altre più pianeggianti in cui si ritorna sulla terraferma, cui corrispondono gli inserti di trama più lineare. L’obiettivo dichiarato dell’autore è investigare, tramite la forma della scrittura, cosa c’è oltre le tre dimensioni che percepiamo, rappresentate come una prigione mentale e fisica alla nostra completa percezione della realtà.

Penetrare la prigione delle tre dimensioni attraverso il ragionamento matematico eguaglia, in realtà (o duplica, prova che alla fine tutte le vie della conoscenza convergono verso un punto incandescente, mistico-poetico-logico-matematico), l’estasi, la gestazione da parte di un dio, la condizione abbacinante del satori.      Il mondo a quattro dimensioni è, rispetto al (nostro) mondo tridimensionale, quello che il nostro mondo è rispetto a quello a due dimensioni e, a seguire, ciò che il mondo bidimensionale è rispetto a quello a una sola dimensione.

Molte delle suggestioni utilizzate, tra cui alcune chiaramente in debito con “Flatlandia” di Abbott, indicano chiaramente come questa situazione di percezione limitata comporti sostanzialmente un dolore esistenziale, sia per l’insignificanza umana dovuta alla non comprensione, sia per l’incontrovertibile presenza della morte. È sintomatico indicare questi due temi come cardine del libro, il dolore e la morte, che si impongono su tutto il resto. L’autore si inventa anche una setta di manifestanti che protesta contro questi due temi, al grido della poesia di Dylan Thomas “Do not go gentle into that good night”.

La percezione delle dimensioni è declinata con un’ossessione per il macro e il micro/nano, ci sono statue enormi e acari minuscoli, in cui lo scrittore si cala per comprendere un mondo sconosciuto e con logiche differenti.

Nel libro abbondano le divagazioni, tanto che certe volte vien da chiedersi il senso, subito prima di perdersi in questi mini-racconti incastonati nella struttura narrativa. Le storie sono le più differenti, dall’esperto di auto-impiccagioni, a quello di linguaggi cifrati, ma in tutte rimane costante l’alone pseudo scientifico che lo scrittore secerne e sparge nelle pagine. L’emblema assoluto è il solenoide, che dà il titolo al libro; strumento metallico usato nell’elettromagnetismo, si scopre mezzo fantastico che apre nuovi mondi e chiave di volta per alcuni avvenimenti di trama.

 In conclusione, Solenoide non è un libro di facile lettura, necessita di attenzione e voglia di lasciarsi andare, magari con un dizionario come ancora per non perdersi nella scrittura colta e variegata dell’autore. A fronte di questi aspetti Solenoide è un chiaro manifesto di cosa può rappresentare un libro di innovazione moderno; ponendosi direttamente come un antiromanzo, si lascia andare ai canoni classici, lasciando libera la scrittura di spargersi sulla pagina e prendersi il comando.

un libro deve essere un segnale, deve dirti «vai là», o «fermati», o «vola», o «squartati il ventre». Un libro deve richiedere una risposta. Se non fa questo, se fermi il tuo sguardo sulla sua superficie ingegnosa, inventiva, tenera, saggia, piacevole, meravigliosa invece di appuntarlo verso quello che il libro indica, hai letto allora uno scritto letterario e hai mancato ancora una volta il significato di ogni sforzo umano: l’uscire fuori da questo mondo. I romanzi ti tengono qui, ti riscaldano e ti consolano, mettono lustrini scintillanti sull’abito della cavallerizza circense. Ma, per l’amor del cielo, quand’è che leggerai anche un libro vero?

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