Il male oscuro

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“Il male oscuro” è una lunga e dolorosa confessione di Giuseppe Berto; l’autore, in quest’opera ai limiti dell’autobiografia, racconta la storia di uno scrittore colto da frequenti attacchi di panico, somatizzati con i più disparati problemi fisici.

Il libro ci presenta questo sceneggiatore, con il sogno di diventare romanziere, che vive nella Roma della dolce vita degli anni ’60. La sua esistenza, dopo gli anni della guerra, ha preso un buon risvolto, fatto da incontri con numerose donne e frequentazioni nel mondo del cinema. Tutto cambia quando la famiglia lo richiama al nord per accudire il padre in fin di vita. Lo struggimento dei parenti per la malattia del capofamiglia si trasforma presto in cordoglio quando l’anziano muore. Il protagonista che ha un passato difficile col padre da cui si era allontanato già in vita, dopo qualche giorno di presenza all’ospedale si allontana e proprio in concomitanza di questa fuga, il genitore muore. Lo scrittore non si cruccia particolarmente, anche per via dell’astio nei confronti dell’anziano padre e della famiglia oppressiva, tuttavia a distanza di poco tempo comincia ad accusare particolari problemi fisici, la cui causa è ignota.

Le diagnosi dei dottori cui si rivolge sono le più disparate, dal mal posizionamento di un rene, ad un’ulcera fino alla peritonite. Il dolore si manifesta in vari modi con diverse collocazioni nel corpo, ma il minimo comune denominatore che il protagonista trova a tutti i suoi male è il senso di colpa. Il malessere verso l’anziano padre, verso cui era arrivato quasi a provare indifferenza e odio in vita, si trasforma in pentimento per quella fuga dal letto di morte in ospedale. Ogni male trova riscontro in questo senso di afflizione, di condanna post mortem del defunto che si vendica verso il figlio che lo ha abbandonato.

la paura della paura è arcana e ubiqua, sfugge sia ai raggi che agli esami istologici sicché nessuno al di fuori può capire se ci sia o non ci sia fino a che non si scarica in manifestazioni anche troppo evidenti come pallore o tachicardia o diarrea e allora anche il più asino dei medici riesce a capire che qualcosa c’è, ma purtroppo questa paura non sempre prende la strada dell’evidenza e spesso rimane come paura astratta o va a finire nel caldo lombare o nei giramenti testicolari e in questi casi è facile trovare medici che dicono che il caldo è una mia impressione e che i coglioni in fondo girano a tutti, e così uno rimane solo a meditare sulle proprie disgrazie cercando di capirci qualcosa ed è questo ciò che alla fin fine conforta, la persistenza di una pretesa di chiarificazione, ossia non tutto in me è perduto se sopravvive la voglia di vederci chiaro la quale è in un certo senso volontà di guarigione o perlomeno non totale abbandono alla malattia

Le crisi di panico continuano ad alternarsi a periodi di relativa stabilità, anche se ogni evento può essere causa improvvisa di una ricaduta. Il rapporto con il padre viene ricostituito nella memoria, per comprendere dove si è incrinato e per distinguerne eventuali colpe. L’ombra del padre si trasforma in un’influenza morale sul protagonista, che si ritrova ad ammettere di riconoscersi in gesti e paturnie tipiche del genitore. La risalita potrà avvenire solo con un periodo di analisi da uno psicologo che cercherà di far scandagliare al protagonista i moti dell’animo e il principio di deresponsabilizzazione della sua vita dall’influenza paterna.

Il processo di ritorno ad una vita normale è comunque complesso e il libro copre un arco temporale di un decennio, in cui il protagonista cerca di vivere con moglie e figlia, di ottenere un lavoro remunerato come sceneggiatore e soprattutto di scrivere il grande romanzo italiano, orgoglio e vanità che lo sormonta nel momento stesso di mettersi a scrivere. Nonostante la nevrosi intermittente, lo scrittore offre uno sguardo disincantato sul suo mondo e sui suoi colleghi scrittori (ad esempio Moravia), in cui ogni sogno di riscatto professionale si pone a metà tra vigliaccheria e orgoglio mancato.

se ho peccati da scontare non c’è santi che devo scontarli, e peccati ne ho fatti molti e moltissimi specie contro il sesto comandamento tante volte pensando mentre peccavo a sfide contro i demoni o direttamente contro Dio

Questa frase, come tante altre del libro, può raccontare cos’è “Il male oscuro” di Giuseppe Berto: una confessione autobiografica che infilza memorie di rimorsi e peccati per provare a riconciliarsi con sé stessi.

Il libro è uno dei capisaldi del ‘900 letterario italiano, anche se non pubblicato al pari di altri libri più recensiti che oggi trovano più spazio nei discorsi e nelle librerie. Sarà che il libro di Berto è sicuramente ostico, non si presta a letture facili, disattente o interrotte da pause. La narrazione è un filo unico, un lungo flusso di coscienza, in cui virgole e punti latitano, con frasi di pagine e pagine. Questa scelta stilistica permette di rendere su carta l’abiezione fisica e morale del protagonista, che cerca di fare i conti con la sua malattia e con la sua vita. La scrittura si fa metafora della ricostruzione di una mente contorta e di un male intellegibile e in quanto tale rappresenta le difficoltà nel venirne a capo.

"Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore"

Il male oscuro del titolo (citazione gaddiana) fa tornare alla mente il mestiere di vivere di Pavese, non è un caso che nel libro si parli apertamente di suicidio di fronte all’insofferenza della vita. L’incapacità alla felicità e alla normalità porta ad una sfida, ma anche il suicidio porta ad una scelta di autodeterminazione troppo pesante da scegliere, l’unica via di fuga è l’autoaccetazione, prima pietra per una presa d’atto della sua condizione.

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