La tregua

Cosa rimane della vita quando i giorni trascorrono tutti uguali tra loro? Cosa rimane quando la gioia di vivere ha lasciato da tempo spazio alla noia della ripetitività? Cosa rimane quando l’amore è un concetto volontariamente sepolto e dolorosamente dimenticato?

 


Sono tutti quesiti che Mario Benedetti pone a Martin Santomé, il protagonista di questo romanzo-diario degli anni ’50, una piccola chicca della letteratura sudamericana. Martin è un impiegato contabile quasi cinquantenne, vedovo di una moglie morta troppo presto e con tre figli ormai grandi a carico. Le sue giornate trascorrono senza lasciare un segno nella sua vita, se non quello dell’assuefazione della routine di ufficio, unico riparo in cui si sente al sicuro dalle mancanze della sua vita. I numeri della contabilità lo rallegrano perché lo costringono a non pensare ma a ripetere meccanicamente una procedura nota; questo desiderio di alienamento è dovuto alla voglia di allontanarsi da una realtà a cui non si ha più niente da chiedere.

Allora ho visto la mia immonda solitudine, quel che era rimasto di me, ed era pochissimo.

“Quando si resta a lungo soli, quando passano anni e anni senza che un dialogo vivificante e interessato sproni a condurre quella modesta civiltà dell’anima - che si chiama lucidità – fino alle zone più aggrovigliate dell’istinto, fino a quelle terre realmente vergini, inesplorate, dei desideri, dei sentimenti, delle repulsioni; quando questa solitudine si trasforma in abitudine, si finisce per perdere inesorabilmente la capacità di sentirsi commosso, di sentirsi vivo.”

Questo inaridimento è scacciato via di colpo quando in ufficio viene assunta una nuova ragazza, Avellaneda. Mentre prima Martin desiderava solo sprofondare nell’oblio e nell’ozio della pensione, con l’arrivo della ragazza scopre un nuovo motivo per vivere. L’approccio è timido e insicuro, ma ben presto l’infatuamento si trasforma in un amore clandestino e in una nuova speranza di vita. La disillusione diventa un fantasma del passato, Martin ritrova la speranza nel futuro e la gioia dell’esistenza, scopre finalmente una tregua nella sua vita, dopo la tristezza del passato.

Il tempo fugge. A volte mi dico che dovrei vivere fino all’ultimo respiro, approfittando al massimo degli anni che mi restano. Oggi, guardando le mie rughe, chiunque potrebbe dirmi: “Ma lei è ancora giovane!” Ancora. Quanti anni di “ancora” mi restano? Ci penso, e sono preso dalla fretta, provo l’angosciante sensazione che la vita mi stia sfuggendo, quasi le mie vene si fossero aperte e non riuscissi a fermare il sangue che ne esce. Perché la vita è molte cose insieme (lavoro, denaro, destino, amicizia, salute, preoccupazioni), ma nessuno potrà negare che quando pensiamo alla parola “Vita”, quando per esempio diciamo che “siamo attaccati alla vita”, assimiliamo questa a una parola piú concreta, piú seducente, senza dubbio piú importante: la assimiliamo al Piacere. Penso al piacere (a qualsiasi forma di piacere), e sono certo che la vita sia proprio questo. Ecco perché la fretta, la tragica fretta di questi cinquant’anni che mi tallonano. Mi resta ancora, almeno lo spero, qualche anno di amicizia, di discreta salute, di abituali affanni, di speranza nella sorte, ma quanto piacere mi resta? Avevo vent’anni, ed ero giovane; ne avevo trenta, ed ero giovane; quaranta, ed ero giovane. Adesso ne ho cinquanta, e sono “ancora giovane”. E questo vuol dire: ben presto sarà finita

La nuova felicità porta aspetti ormai dimenticati da tempo come la voglia di vedersi e la paura di abbandonarsi, ma anche nuove consapevolezze dettate dall’età e da una relazione con una ragazza più piccola. Martin si sente insicuro, prova la paura di essere inadeguato per la sua vecchiaia e ridicolo per il nuovo amore.

Il diario del protagonista racconta principalmente questa trasformazione di Martin, ma sullo sfondo si possono percepire lievi sfumature della Montevideo degli anni ’50, come la rivoluzione politica in fermento o il disagio malcelato verso una società sempre più opportunistica e spietata.

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