Il ritmo di Harlem

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Colson Whitehead, stella della narrativa americana, torna dopo la vittoria di due Pulitzer di fila e cambia registro, lasciando in disparte i drama novel dei libri precedenti per dedicarsi ad un crime vecchio stile.


 

Il protagonista del romanzo è Ray Carney, un ragazzo di colore che, cercando di smarcarsi dalla fama da delinquente del padre, si laurea e apre un negozio di articoli usati. Siamo alla fine degli anni ’50, la città si sta espandendo, scheletri di grattacieli riempiono lo skyline lasciando immaginare un futuro radioso e anche ad Harlem c’è chi si industria per accaparrarsi parte di quelle opportunità.

 Ray, scottato dall’esempio paterno, cerca di rigare dritto e gira la città in cerca di occasioni tra vecchi mobili e radio non sempre funzionanti. Ray è sposato ed ha una figlia, ed è per loro che cerca di risalire la scala sociale. Tuttavia le origini del padre e alcune vecchie conoscenze del quartiere non sembrano pensarla allo stesso modo. Infatti, mentre la sua attività lecita cresce nel tempo, Ray si trova invischiato in affari criminali sempre più pericolosi, nella maggior parte dei casi sempre causati dallo scalmanato cugino Freddie. All’inizio si tratta della refurtiva di qualche colpo, qualche televisore o qualche lampada, finché non si arriva ai gioielli e alla mafia.

Freddie lo trascinerà in avventure sempre più rischiose tramite le quali Whitehead ci presenta il volto del quartiere prima e della città poi. Lo scrittore descrive un sottobosco di figure poco raccomandabili, dagli sgherri dei mafiosi tipo Bumpy Johnson e Chick Montague, fino ai gioiellieri ricettatori e ai politici e poliziotti corrotti. Harlem viene rappresentata come un’orchestra che si muove tutta allo stesso ritmo, in cui le persone ballano seguendo le stesse norme non scritte, in cui le bustarelle servono a risolvere i problemi e chi non segue la musica viene estromesso dalla sala da ballo. Qualche volta c’è qualche sosta, in cui la musica si ferma, come nell’occasione delle tensioni razziali e delle proteste del movimento dei diritti civili, ma il ritmo è destinato a ripartire incessante. 

Nelle sue interviste lo scrittore definisce “Il ritmo di Harlem” come una lettera d’amore al quartiere newyorchese e leggendo il libro si può capire il perché: l’autore porta il lettore a spasso nella Harlem degli anni ’60 e gli fa respirare l’atmosfera densa di cambiamenti e tensioni sociali di quei tempi.

Si percepiscono le fatiche degli ultimi e di chi prova a diventare qualcuno, la cultura e la comunità del quartiere, le tensioni sociali, le guerre mafiose e i privilegi dei bianchi. Tutto il libro appare come una grande carrellata sul quartiere.

A livello narrativo Whitehead si discosta parecchio dai suoi fortunati libri passati, forse per non voler ripetersi e si cimenta con un genere diverso, il crime. La scrittura è fluida come sempre, alcuni personaggi (soprattutto i secondari come il criminale Pepper) sono azzeccati in pieno. L’unica pecca che ho riscontrato nel libro è la gestione poco oculata di alcuni flashforward nei momenti chiave dell’azione, che fanno abbassare una tensione narrativa fino a lì ben costruita.

A fine lettura, per chi non fosse sazio della Harlem degli anni ’60, consiglio la serie TV “Godfather of Harlem”, che narra in maniera quasi realistica, seppur con qualche licenza, le vicissitudini mafiose di Bumpy Johnson, figura chiave del periodo.

un osservatore esterno poteva farsi l’idea che Carney trafficasse spesso in merce rubata, ma lui la vedeva diversamente. C’era un flusso di merci dentro e fuori e attraverso la vita delle persone, un ricambio naturale, e Ray Carney favoriva quel ricambio. Un intermediario. Legale.

 

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