Il giorno del giudizio

“Il giorno del giudizio” è un grande romanzo del ‘900 italiano, forse dimenticato ma da riscoprire. Il libro racconta di un ritorno a casa, in quella Sardegna originaria e abbandonata, definita come una terra di demoniaca tristezza.

La voce narrante ormai anziana, in cui è facile rivedere qualche tratto dell’autore, torna a Nuoro e in una passeggiata nel cimitero viene assalito dai ricordi della sua infanzia. Da questo espediente narrativo si dipana la storia. Satta racconta la Nuoro a cavallo tra la fine del ‘800 e i primi anni del ‘900.

«In questo remotissimo angolo del mondo, da tutti ignorato fuori che da me, sento che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno solo, quello di essere stati vivi».

La valenza del racconto tra le lapidi del cimitero è emblematica in quanto l’autore si sofferma proprio sul significato della vita e sugli esempi dei suoi ex compaesani. Sono tutti morti da decenni, ma l’autore si sofferma sulle loro vite, quasi a voler esorcizzare la morte o perlomeno per liberarli dai legami terreni della memoria.

La Nuoro che ci viene descritta è un piccolo paese di pochi abitanti, arretrato e tagliato fuori dal mondo contemporaneo. Il paese ci viene presentato come composto essenzialmente da tre quartieri: in basso vivono i pastori, in alto gli agricoltori e nel centro la piccola borghesia del posto.

Il fulcro della storia è costituito dalle vicende della famiglia di Don Sebastiano Sanna, un rispettato notaio con sette figli maschi. Questo personaggio rappresenta un emblema nel paese, viene rispettato da tutti in quanto rappresentante della legge, ma ciò che dall’esterno sembra perfetto è corrotto nell’ambiente famigliare. Il suo menefreghismo verso le questioni famigliari ha esasperato la moglie, costretta a invecchiare afflitta dall’artrosi e si autoinfligge una clausura volontaria in casa. Il rapporto di disprezzo che Sebastiano nutre nei confronti della moglie è parossistico, tanto da apostrofarla con frasi del tipo “tu stai al mondo solo perché c’è posto”.

La difficoltà più grande che io trovo in questo ritorno al passato è quella di mantenere le prospettive. E si capisce perché: ognuno di noi, anche se si limita a guardare in sé stesso, si vede nella fissità di un ritratto, non nella successione dell’esistenza.

Oltre alle questioni della famiglia Sanna, il libro ci parla soprattutto degli abitanti di Nuoro. Ci sono i poveri contadini che arrancano inseguendo un po’ di pioggia per le terre aride, gli avvocati che non hanno mai discusso una causa o discutono la stessa da decadi, i frequentatori abituali del bar, i maestri di scuola e i preti. Tutti hanno un ruolo specifico nella vita del paese, un ruolo che non si sceglie ma che si mantiene per tutta la vita e qualche volta anche da morti, nella memoria degli altri. I ricchi tramandano la ricchezza e i poveri la povertà, tutto rimane intatto, il tempo come una crisalide fossilizzata. Questo stato di immobilità si percepisce anche verso l’esterno; infatti Nuoro ci viene presentata come una prigione di anime, qualcosa da cui è difficile fuggire. Il paese è isolato, lontano da Sassari e Cagliari e totalmente separato dall’Italia. I legami con il presente e la storia sono sporadici. C’è l’avvento della corrente l’elettrica ma soprattutto la Guerra, venuta a prendersi i giovani e a restituire morti.

L’immobilità del paese si riflette nei comportamenti stessi dei suoi abitanti. Chi cerca di fuggire sia per ambizione o per necessità viene mal visto dagli altri paesani, si pensa che vadano a “cercare qualcosa di meglio del pane fatto di grano”. La condanna per la fuga è unanime e porta ad una visione totalmente pessimistica. Leggendo Satta mi è tornato in mente Pavese quando affermava che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Tuttavia Nuoro non ha la stessa funzione delle Langhe piemontesi, non rappresenta un luogo felice a cui ritornare, ma qualcosa da cui è impossibile scappare.

“Il giorno del giudizio” è paragonabile ad una Spoon River declinata in versione sarda, in cui le anime dei morti rivendicano il loro spazio, per quanto angusto nella storia. I frammenti della trama, i numerosi protagonisti lasciano a fine lettura un senso di angoscia per ciò che è stato, per i miglioramenti non avvenuti e per tutte le sofferenze. Tutto sparisce nel giorno del giudizio, quando arriva la morte.

Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale.

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