Gli anni

In quella che vede come una sorta di autobiografia impersonale non ci sarà nessun «io», ma un «si» e un «noi», come se anche lei, a sua volta, svolgesse il racconto dei tempi andati.

Annie Ernaux si immerge nella storia, partendo dal secondo dopoguerra francese e arrivando fino ai giorni nostri, miscelando i fatti storici e sociali ai suoi avvenimenti privati. Il risultato è un’autobiografia decisamente sui generis, in cui la cronaca collettiva della Francia viene declinata nelle impressioni della scrittrice, con la volontà di fissare i ricordi su una pagina per non correre il rischio di vederli mescolarsi e svanire nella memoria.

Si comincia con gli anni ’50 e con la gioventù cresciuta con la ricostruzione post-bellica e le relative privazioni. La bambina diventa ragazza, cresce, studia e diventa autonoma con il matrimonio e il lavoro. La storia è quella dell’Ernaux, ma le tracce della protagonista sono latenti, si nascondono tra i paragrafi dedicati alla società e alla politica per poi ricomparire di colpo con l’escamotage di alcune foto con cui scandire il passare del tempo. La scelta è giustificata in modo chiaro, l’intenzione è quella di ricostruire una voce corale, senza badare troppo ai singoli avvenimenti.

Alcuni fatti sono ben chiari, dalle tensioni della Guerra Fredda fino alle nuove tecnologie, altre come alcuni episodi di storia francese sono un po’ più specifici e possono rendere ostica la piena comprensione del testo. Il panorama citazionista è ricchissimo, si va dai film di Godard e Ferreri alle proteste di Bobby Sands.

L’impostazione del romanzo appare chiara dopo una decina di pagine, tuttavia la struttura generale del libro sembra essere sbilanciata. Se nella gioventù vediamo una maggior presenza delle vicende personali dell’autrice, in quella della maturità la sentiamo progressivamente mancare a causa di una maggior voce politica. Sembra quasi che la maggior coscienza acquisita con la maturità sia l’unica voce degna di nota per l’autrice, che parla sempre meno di lei e sempre più della sua Francia. Alcuni paragrafi sono esemplificativi, si passa da un’elezione all’altra, da de Gaulle a Mitterand. Con l’avanzare di questo sbilanciamento si ha l’impressione che l’autrice cambi obiettivo, non più un pastiche tra personale e sociale, ma solo una lunga descrizione, senza tante riflessioni degne di nota, sugli eventi più importanti degli ultimi quarant’anni. Così ci presenta l’emancipazione femminile, la società borghese, i dettami consumistici e conformisti, le lotte degli studenti, etc. Tutto già sentito e senza troppo coinvolgimento, da spettatrice passiva e acritica verso la storia.

Se la parte personale in alcune parti diventa quasi impercettibile, la parte sociopolitica non fornisce quindi grandi approfondimenti. I commenti di parte diventano giudizi molto tranchant. Le battaglie più politiche e meno sociali, come ad esempio le varie guerre mostrano bene questo punto di vista. Riporto alcuni stralci di testo per esemplificare l’atteggiamento della Ernaux che in un certo qual senso verrebbe da definire elitario e al limite dello snobismo.

Ad inizio anni ‘80:

Nel mondo le guerre seguivano il loro corso. L’interesse che suscitavano in noi era inversamente proporzionale alla loro durata e alla loro distanza, dipendeva più che altro dall’eventuale coinvolgimento di Paesi occidentali. Non sapevamo dire quando gli iraniani e gli iracheni avevano cominciato ad ammazzarsi tra di loro, da quanti anni era che i russi cercavano di sottomettere gli afghani. E ancora meno conoscevamo i motivi di quei conflitti, persuasi nell’intimo che in fondo non se li ricordassero più neanche loro. Continuavamo a firmare petizioni ma senza entusiasmo. Facevamo confusione tra le fazioni in lotta in Libano, tra sciiti, sunniti, persino cristiani. Che ci si massacrasse per motivi religiosi andava al di là della nostra comprensione, ci sembrava semplicemente comprovare che quei popoli erano rimasti indietro, a uno stadio inferiore.

Ad inizio anni ‘90

L’eccitazione per gli avvenimenti nel mondo era venuta meno. L’inatteso stancava. Eravamo trascinati da qualcosa di impalpabile. Lo spazio dell’esperienza perdeva i suoi contorni familiari. Nell’accumularsi degli anni si sbiadivano fino a cancellarsi proprio quelli che avevamo usato come punti di riferimento, il ’68 e l’81. La nuova cesura era la caduta del Muro, si diceva l’evento senza bisogno di specificare la data. Non fissava la fine della Storia, ma solo di quella che si poteva raccontare. I Paesi dell’Est e dell’Europa centrale – fino ad allora assenti dal nostro immaginario geografico – sembravano moltiplicarsi, si dividevano in «etnie», termine che li distingueva da noi e dalle popolazioni serie veicolando un’arretratezza di cui la rinascita delle religioni e dell’intolleranza costituivano la prova.

Sempre anni ‘90

Gli anni Novanta che giungevano al termine non a­­ve­vano avuto alcuna valenza particolare, anni di disincanto. Considerata la situazione in Iraq – che gli Stati Uniti affamavano e tenevano sotto la costante minaccia di attacchi aerei, dove i bambini morivano per mancanza di medicine – oppure a Gaza e in Cisgiordania, in Cecenia e in Kosovo o in Algeria eccetera, tanto valeva dimenticarsi della stretta di mano a Camp David tra Arafat e Clinton, dell’annunciato «nuovo ordine mondiale» o di Eltsin sul suo carrarmato. Di fatto restava ben poco da ricordare se non le sere nebbiose del dicembre del ’95, ormai lontane, durante quello che fu forse l’ultimo dei grandi scioperi del secolo. E semmai la bella e sfortunata principessa Diana uccisa in macchina sotto il pont de l’Alma e il vestito azzurro di Monica Lewinsky macchiato dello sperma di Bill Clinton. Ma soprattutto ci si ricordava dei Mondiali di calcio.

L’ottica franco-centrica ed elitaria sembra essere, nonostante il passare degli anni, una costante nella visione dell’autrice. Penso che lo stesso snobismo si possa percepire anche nella visione dei giovani e delle nuove tecnologie, viste con disarmante distacco e percepite come incapaci di qualcosa di significativo. L’autrice stessa si dichiara estranea al nuovo mondo, utilizzando enfaticamente le virgolette per parole di uso comune come navigare in internet o siti.  

In definitiva ritengo che “Gli anni” sia un libro che parte bene ma che si perde per strada. Se da una parte è ammirevole l’idea di ricostruire una memoria corale, dall’altra penso che l’autrice non riesca a raggiungerla, rimanendo incagliata a metà strada tra un resoconto storico e qualche accenno alla vita privata.

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