Leggenda privata

“Leggenda privata” di Michele Mari è un’autobiografia sui generis, in cui l’autore si racconta usando i canoni di una storia impersonale (da cui la leggenda del titolo), con la presenza dei sogni e dei rimpianti sepolti nel passato. 

Il romanzo, che si dipana tra la realtà e il sogno lucido, rappresenta un viaggio nei ricordi più dolorosi nella gioventù dello scrittore, dal rapporto con i genitori, fino alla crescita adolescenziale. Mari, in chiave narrativa, è spinto a scrivere dei suoi ricordi sotto la pressione di una fantomatica Accademia dei ciechi (che mi è sembrata una grande citazione a Sabato), reminiscenza delle sue ossessioni più sfrenate. L’accademia vuole vedere rappresentato il dolore che ha formato lo scrittore, ritenuto l’unica vera fonte della creatività artistica.

Il fatto è che scrivo al ribasso. Non invento, non enfatizzo: grado della mitopoiesi molto vicino allo zero. Semmai ometto, attenuo, eufemizzo. Ma questi mostri vogliono il carnevale, l'euforia della forma: per cogliermi lì, ignudo sotto un travestimento così sfarzoso da non poter diventare una seconda pelle. L'idea è che l'ingombro del travestimento sia tale da trasformarsi in una prigione: ma non lo è già questa casa?

Mari comincia a estrapolare i suoi ricordi dalla memoria per raccontarli ma i veri protagonisti sono i suoi genitori. Per chi non lo sapesse, Michele Mari è figlio di Enzo Mari, uno dei designer più noti a livello internazionale del ‘900. Oltre al famoso padre, anche la madre di Mari poteva contare sull’amicizia con persone del calibro di Dino Buzzati e Montale. Cosa vuol dire essere bambino e crescere in un tale sistema famigliare? Mari non fa sconti ai suoi genitori e ne evidenzia tutte le criticità. Il rapporto con il padre è basato sul conflitto e sull’intimidazione sicché il carattere forte di Enzo sovrasta quello del figlio, che non riesce a sviluppare un proprio senso critico e un proprio carattere in età giovanile. Essendo figlio di genitori divorziati, lo scrittore enfatizza i rapporti critici tra i genitori dopo la separazione, evidenziando le inevitabili ricadute sulla sua maturazione.

"Nacqui d'inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto..."

Il rapporto con i genitori è dunque sviscerato fino in fondo senza fare sconti, lo scrittore non risparmia gli aneddoti impietosi e gli episodi più crudi. Ci mostra cosa vuol dire essere cresciuto in una famiglia d’élite della Milano degli anni ’60, in cui si deprecava la televisione, i fumetti, il calcio e l’unica ostentazione era la consapevolezza di essere diverso e superiore.

Mari usa una scrittura da affresco rinascimentale per dipingere il quadro della sua adolescenza; esibisce una grande ricchezza lessicale, che rende al meglio quella che sembra più una seduta di terapia che un’autobiografia.

Così, come un paguro indifeso, mi sono dovuto cercare e trovare una bella coclea, spiraliforme, robusta, placcata di durissima madreperla: e lì stare, fra le mie parole e i miei libri.

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