Quando abbiamo smesso di capire il mondo

Benjamín Labatut con il suo “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” ci presenta delle storie relative a uomini di scienza del ‘900, impegnati in campi quali matematica avanzata, fisica quantistica e chimica. Tuttavia dimenticatevi la divulgazione scientifica, le complicate equazioni presenti nei libri di testo e soprattutto non fatevi spaventare dai nomi dei personaggi presenti in questo libro, l’argomento non sono le scienze ma gli uomini. Sembra quasi una trappola per invogliare gli appassionati del genere, quando in realtà il vero fulcro del libro, come già detto, sono gli uomini, con le loro passioni e le loro ossessioni.


La narrazione è composta in più parti scollegate tra loro, ma in ognuna è possibile trovare un sentimento che emerge da una teoria o da una scoperta scientifica. Si comincia con la storia di Fritz Haber, un uomo che è ricordato per le contraddizioni delle sue scoperte, da una parte la scoperta del processo di sintesi dell’ammoniaca che gli valse il Nobel e dall’altra l’invenzione dei gas chimici a fini bellici, compreso lo Zyklon B usato nelle camere a gas naziste. Il personaggio incarna perfettamente i valori ambivalenti dell’innovazione, prosperità e distruzione.

Un punto di vista è limitato di per sé. Ci dà una visione a senso unico del paesaggio. Solo quando si sommano più sguardi complementari sulla stessa realtà si ha pieno accesso al sapere delle cose. Quanto più è complesso ciò che vogliamo comprendere, tanto più sarà importante disporre di diverse paia d’occhi, in modo che i fasci di luce convergano e possiamo vedere l’Uno attraverso la molteplicità. È questa la natura di una visione autentica: mettere insieme i punti di vista già conosciuti e mostrarne altri finora ignoti, insegnandoci che, di fatto, sono tutti parte dello stesso Tutto

La scienza può essere una forza motrice impossibile da arginare, ma dietro le scoperte e le innovazioni si nascondono sempre gli uomini, con le loro ossessioni e le loro vite, che a volte viene difficile definire normali. Labatut nella sua narrazione ci presenta diversi esempi di uomini che hanno posto la ricerca come primo obiettivo della loro vita, sacrificando tutto il resto sull’altare delle loro passioni. L’autore ci parla del matematico Schwarzschild, che ossessionato dal significato alogico delle sue scoperte sulla teoria di Einstein, diventa pazzo cercando di trovare una soluzione razionale. Lo stesso per certi versi capita al matematico Grothendieck, che dopo una folgorante carriera accademica decide di mollare tutto e dedicarsi al pacifismo, vivendo come un eremita in una comune. 

La parte del libro che reputo più interessante è sicuramente quella dedicata alla nascita della meccanica quantistica e alla disputa culminata nel Congresso di Solvay del 1927, alla presenza di una tavola rotonda colma di premi Nobel. L’ambito della sfida era capire la natura degli elettroni e ogni scienziato cercava di dare una spiegazione a partire delle leggi fisiche preesistenti. Labatut riescea spiegare, senza scendere nei dettagli delle teorie, il senso di rivalità tra questi scienziati eccellenti. Da una parte c’è il giovane Heisenberg che sfodera una teoria stramba e talmente complessa da venire rigettata dalla comunità scientifica e dall’altra gli scienziati che si ostinano a costruire sulla visione antica, senza la necessità di rivoluzioni. L’impegno nel cercare una soluzione, le anomalie di un comportamento che può scaturire nell’ossessione e portare alla pazzia sono il leit motiv di questa parte di romanzo, i cui costrutti sono significativi di tutto il libro. C’è sempre un uomo geniale, che molte volte si isola dalla società, per cercare nel proprio abisso la soluzione alla sua ricerca. Labatut non fa utilizzare il metodo scientifico ai suoi personaggi, le prove da laboratorio sono sostituite da una carattere esasperato e vicino alla pazzia.

Heisenberg tornò a casa sconfitto, ma non si diede per vinto. Per due anni attaccò le idee di Schrödinger in qualsiasi conferenza e pubblicazione. Il suo avversario, però, sembrava baciato dalla grazia, e il colpo finale venne con l’articolo in cui Schrödinger dimostrava che il suo approccio e quello di Heisenberg, in termini matematici, erano equivalenti. Applicati a un problema, davano esattamente gli stessi risultati. Si trattava solo di due modi diversi di porsi di fronte a un oggetto; il suo, tuttavia, aveva l’enorme vantaggio di permettere una comprensione più intuitiva. Per vedere le particelle subatomiche non c’era bisogno di cavarsi gli occhi, come amava dire Heisenberg: bastava chiuderli e immaginare. «Quando discutiamo delle teorie subatomiche,» chiosò Schrödinger alla fine dell’articolo, come per farsi beffe di Heisenberg «possiamo tranquillamente parlare al singolare»

La scienza viene considerata come una visione del mondo, una filosofia post moderna che deve racchiudere tutto ed essere in armonia con l'esistente. Significativo è l’esempio di Einstein che, al culmine del successo, cerca invano di contrastare la nuova teoria fisica ritenendola troppa aleatoria per la natura del mondo.

In tutto il romanzo, è bene sottolinearlo, l’autore fa largo uso di invenzione, soprattutto nella descrizione di alcune vicende personali dei personaggi. Tuttavia la carica narrativa che costruisce è un grande pregio e il lettore se ne accorge quando si trova a girare le pagine in seguito alla curiosità sulle scoperte di un giovane scienziato in un’isola sperduta. La scienza è messa in secondo piano, nascosta da qualche trucco narrativo, ma l’interesse per l’uomo la fa da padrone. L’unica critica che mi sento di rivolgere al libro è il rischio di monotonia nella descrizione dell’acume folle dei personaggi, tutti tratteggiati con tratti similari che alla lunga non riflettono più sorpresa. 

Commenti