Febbre

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“Febbre” è il romanzo d’esordio di Jonathan Bazzi, in cui lo scrittore decide di trattare con due linee narrative intrecciate la sua autobiografia e la scoperta della sieropositività.


Nel presente il protagonista Jonathan si ritrova all’improvviso alle prese con una febbre incalzante e perenne, che gli rende insopportabile dapprima il lavoro e poi qualsiasi attività quotidiana. Lo yoga e lo studio vengono lentamente abbandonati e la sua vita si trasforma in una moltitudine di visite per scoprire le cause della sua sofferenza.

 Non vorrei più uscire di casa ma non ho alternative. Ogni volta il pensiero già proiettato al dopo, a quando sarà tutto finito. Faccio la spola tra il letto e il divano. Mi nascondo sotto la coperta di pile con i gatti, mi riaddormento e puntualmente ricomincio a sudare. Mi sveglio, mi alzo, mi cambio e torno a sdraiarmi. Questo è il nuovo ritmo delle mie giornate. Una sequenza di gesti senza futuro. Nessun progetto, nessun desiderio.

Supportato dalla madre e dal suo ragazzo, Jonathan scopre meravigliato di essere sieropositivo e gli crolla il mondo addosso. Non conosce la malattia, è fermo ai vecchi luoghi comuni degli anni ’80 e di conseguenza cerca di aggiornarsi per conoscere il suo nemico.

L’ansia dovuta alla scoperta mista ad una febbre perenne rendono il suo cammino un calvario, implicando un’ansia malsana per la sua malattia. Le diagnosi dei dottori, più o meno efficaci e discordanti, si moltiplicano e le paure si amplificano.

Il contorno famigliare della vita del protagonista viene raccontato nella seconda linea narrativa. Il ragazzo è un giovane omossessuale cresciuto a Rozzano, periferia difficile alle porte di Milano.

Tra gli scatoloni in cemento delle case popolari io sono cresciuto in un’intercapedine, respirando una bolla d'aria diversa. Ho conosciuto lo sradicamento silenzioso, il vuoto della non appartenenza.

La sua infanzia e la sua adolescenza sono costellate di traumi: nato in una famiglia disastrata con un padre in fuga e una madre sensibile ma lontana, Jonathan cresce con i nonni materni, che gli offrono una parvenza di normalità, seppur costellata da insofferenze e violenze. Le sofferenze della crescita si declinano nella scoperta dell’omosessualità e di una forte balbuzie. Questi due fattori lo rendono un soggetto facile per bulli e lo isolano dagli altri suoi compagni.

La scrittura impiegata da Bazzi è fatta da frasi veloci e asciutte che comportano un ritmo molto veloce di lettura. I capitoli, seppur brevi, costruiscono in maniera alternata le due storie, fino al completamento del puzzle finale, quando si riesce a cogliere l’immagine finale della vita dell’autore.

La metafora che accumuna i due percorsi è sicuramente quella dei coming out del protagonista, prima quello relativo alla sua sessualità e in seguito quello inerente alla sua malattia.

Come farò a vivere col pensiero di non essere più integro, neutro, puro, tela, pagina bianca? Come farò ad andare avanti un giorno dopo l’altro sentendo dentro questa cosa che non ci dovrebbe essere, col senso di essere tutt’uno con quest’incognita – bomba a orologeria? – che sarebbe da eliminare ma non si può – Mi spiace, ci devi convivere tutta la vita – con la sensazione di essere fallato, guasto, rovinato per sempre?

Il risultato che si ha alla fine della lettura è quella di una sofferenza sviscerata empaticamente dallo scrittore, che, senza vergognarsi, riesce a scrivere ogni dolore. L’empatia cresce con il procedere della lettura e dopo aver scoperto l’infanzia del protagonista, viene quasi da pensare che la vera sofferenza sia costituita dai soprusi subiti più che dal virus della malattia.

Trovo che l’aggettivo più aderente a “Febbre” sia empatico, infatti, come accennato sopra, è difficile non trovarsi a simpatizzare e a tifare per il protagonista, per via del suo percorso e delle sofferenze che ha subito.

Condizione corporea, oggettiva. Non decisa, scelta, voluta: il virus in realtà non dice niente di me, non dice niente di chi ce l’ha. Sempre lo stesso, uguale per tutti. Semmai conta il modo in cui chi ce l’ha assume su di sé la sua diagnosi, lo stile con cui sceglie o riesce ad attraversarla. Ci avete mai pensato? Ve ne frega davvero qualcosa?  Ho deciso di essere un sieropositivo che si lascia individuare, che racconta più che lasciarvi immaginare.

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