La Gang del pensiero


Avere un accessorio rilevante è quasi altrettanto importante della formuletta sintetica. Diogene: la botte; Socrate: la cicuta; Tommaso D'Aquino: l'obesità; Kant: la noia indescrivibile. Si ha talmente tanto poco tempo per attirare l'attenzione della gente. Ecco perché Nietzsche fa subito colpo: ah, sì, è quello con il baffo che sembra uno spazzolino da cesso.

Ecco, questo stralcio rappresenta bene l’idea di Tibor Fischer nello scrivere “La gang del pensiero”. Il libro parte da un’intuizione brillante, una di quelle che bastano per caratterizzare un romanzo: creare una banda sgangherata di rapinatori, fatta da un balordo professore di filosofia e da un ex galeotto malfermo con voglia di zetetica. 



Eddie è un professore di filosofia a Cambridge, dove per anni ha occupato la cattedra senza preoccuparsi troppo di insegnare, quanto impegnarsi a bere e dedicarsi alla bella vita. Convinto di essere un malato terminale, molla tutto e si trasferisce in Francia, dove per la malasorte si ritrova senza soldi.
Gli eventi lo porteranno a conoscere Hubert, un ex galeotto con le protesi alle gambe e il grilletto facile.
I due sono una coppia stramba e i loro scambi sono esilaranti. Presi dalla disperazione decidono di rapinare una banca, senza sapere bene come fare.

«Ma come hanno fatto a sapere come mi chiamo? E che cos'è questa storia della Gang del Pensiero?».
   «Gliel'ho detto io».
   Certe volte, pur essendo sicuri della completa affidabilità delle proprie orecchie, si hanno grosse difficoltà a far passare la soglia della credulità a certe cose.
   «Gliel'hai detto tu?».
   «Sì»
«Gliel'hai detto tu».
   «Sì. Sì». Tutto questo, secondo me, contravveniva in blocco a tutti i principi del perfetto rapinatore. Hubert evidentemente aveva agito obbedendo a uno strano imperativo categorico:
   «Ho telefonato al giornale dopo che sei uscito. Dobbiamo partire con il piede giusto. Se non avessi fatto loro sapere che siamo stati noi a fare quei due colpi, forse non sarebbero mai arrivati a collegarli. E se il nome non glielo fornisci tu, i giornalisti o la polizia te ne appioppano uno di fantasia. Quella dovrebbe essere una prerogativa nostra».
   «La Gang del Pensiero?».
   «Esatto. Ho detto loro che un famoso filosofo ci insegna a rapinare banche senza correre il rischio di esser presi».
   «E gli hai anche detto come mi chiamo?».
   «Bisogna che ti prendi il merito che ti è dovuto, Prof. E poi l'hai detto tu stesso che eri già in fuga, no?».
   Evidentemente ero dalla parte sbagliata di un dialogo socratico. Non c'era dubbio che Hubert avesse una particolare abilità oratoria, ma non potevo fare a meno di sospettare che le autorità francesi avrebbero cercato d'incastrare con più zelo un rapinatore di banche che un filosofo latitante d'incerta zetetica.

Grazie alle loro rapine diventano famosi in tutta la Francia, anche grazie al loro nome: la gang del pensiero.
Il loro modus operandi è semplice quanto bizzarro: entrare in una banca, porre domande filosofiche e nel frattempo raccogliere più soldi possibile.
Il libro racconta le avventure di queste due figure improbabili, con un alto tasso di umorismo e di situazioni paradossali. La storia cerca sempre di provocare la risata del lettore, e nella maggior parte dei casi ci riesce, non tanto con le caratterizzazioni dei protagonisti ma con il susseguirsi di eventi poco legati tra loro ma comunque divertenti.

Fischer adotta un umorismo graffiante, condito da citazioni filosofiche mischiate a situazioni assurde, in cui i due protagonisti riescono sempre a cavarsela. Non è un libro da prendere sul serio per goderselo appieno. Ci sono alcuni tratti morti derivati dalla ricerca continua di una risata alcune volte un po’ forzata e causata anche da una lunghezza forse un po’ eccessiva.

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