Il colibrì è un uccello capace di muovere le ali più di sessanta volte
al secondo, una facoltà che gli permette di restare fermo a mezz’aria
muovendosi a ripetizione. “Il colibrì” è
anche il soprannome adolescenziale di Marco Carrera, protagonista, lui con la
sua vita, del libro. Il romanzo è costruito narrativamente come un collage di
momenti della vita di Marco, che se presi tutti insieme ci danno una visuale
completa del suo volo.
Marco è un oculista toscano, padre e marito di una classica famiglia
perbene. La cornice iniziale viene presto a disfarsi a causa del divorzio dalla
moglie. La vita di Marco, apparentemente tranquilla, è piena di forti scossoni
che costringono il protagonista a conoscere con esattezza la parola resilienza.
La relazione con la moglie è stata sempre problematica, i due sono uno
l’opposto dell’altro e solo con gli anni Marco riesce a spiegarsi la grande
menzogna che è stato il suo matrimonio. La loro relazione era talmente scontata
che, come genitori, non si sono accorti di avere una figlia malata.
Anche l’infanzia di Marco non è stata priva di traumi, sia con amici
sia con famigliari. I flashback ci permettono di conoscere la sua adolescenza,
passata ironia della sorte, con un amico con fama di iettatore, e in una
famiglia che viveva di sofferenza. I genitori hanno portato a fine vita un
matrimonio fallimentare, costringendosi a non regalarsi un nuovo inizio e
segnando di fatto la vita ai figli.
Perché rimanevano insieme? Perché, se al referendum di pochi mesi
prima avevano entrambi convintamente votato per il divorzio? Perché, se ormai
non si sopportavano più? Perché? Paura, verrebbe da pensare- ma paura di che? Di sicuro la paura c’era, ma
non era la stessa paura – e dunque anche quella li separava. C’era
qualcos’altro, qualcosa di ignoto e indicibile che li teneva insieme – un unico
misterioso punto di contatto che manteneva attiva la promessa che si erano
fatti quasi vent’anni prima, quando sbocciavan le viole, come diceva una
canzone di Fabrizio De André uscita da poco -
da poco rispetto alla lite, non alla promessa, che era di molto
precedente, anche se era esattamente la stessa: Non ci lasceremo mai, mai e poi
mai.
Anche le relazioni tra Marco e i fratelli sono problematiche, frutto
degli anni passati a vivere nell’angoscia di liti sussurrate tra i genitori. Il
dolore a Marco piace così tanto da autoinfliggerselo: dall’adolescenza conosce
Luisa, una ragazza di cui si innamora da ragazzo ma a cui non si lascia mai
andare, neanche quando sarà divorziato e libero.
Ma se è vero che se una storia d’amore non finisce, o come in
questo caso nemmeno comincia, essa continuerà a perseguitare la vita dei
protagonisti con il suo nulla di cose non dette, azioni non compiute, baci non
dati.
La tenace volontà con cui affronta la vita e riesce a superare i suoi
ostacoli motivano il suo soprannome. Colibrì, affibbiato inizialmente per la
sua statura, calza a pennello, perché Marco si muove repentinamente nella vita,
solo dopo essere stato fermo ad aspettare che tutto si aggiustasse senza
interventi. Il movimento del colibrì Marco è frenetico, cerca di destreggiarsi
nella vita e tra le sofferenze, per rimanere saldo, in una posizione di
sicurezza che gli sfugge continuamente. Vede pezzi della sua vita crollare, prima la
famiglia d’origine poi quella che forma. La sua unica speranza nella vecchiaia
è data dalla nipote, la cui crescita diventa l’unico obiettivo di vita.
Veronesi in questo libro vuole seminare e dissezionare il dolore, in
tutte le sue forme. Tutto il romanzo è un susseguirsi di sofferenze, declinate
nelle varie forme: ci sono i traumi dovuti a lutti a ripetizione, le relazioni
che finiscono e quelle che non cominciano, ci sono matrimoni portati forzatamente
avanti quando necessiterebbero di una fine forzata e benefica, ci sono vincite
al gioco e perdite in amore.
Il libro può essere visto come una lunga seduta di psicoanalisi, in
cui ogni personaggio racconta un po’ di sé e del proprio dolore. Forse è per
questo che Veronesi ha preferito una struttura temporale frammentata, per
emulare il processo di rievocazione dei ricordi del passato. D’altronde gli
stessi psicologi ricoprono un ruolo fondamentale nella vita di Marco, sembra
che chiunque gli stia vicino sia obbligato ad andare in terapia, e da questo
deriva il suo odio verso la categoria medica.
La psicoanalisi era come il fumo, non bastava non praticarla,
bisognava anche proteggersi da chi la praticava. Solo che l’unica maniera
conosciuta per proteggersi dalla psicoanalisi altrui era andare a propria volta
in analisi, e lui su questo non intendeva mollare
Il libro è un ottimo viaggio nella storia di una famiglia disastrata.
Solo il finale è un po’ stonato rispetto al corpo del romanzo. Veronesi vuole
offrire uno spunto di positività dopo tutta la tristezza del libro e per farlo
si inventa il personaggio dell’uomo nuovo, la nipote di Marco. Questa bambina
viene descritta come una sorta di redentore del genere umano, perfetta,
intelligentissima e infallibile. Forse l’autore con questo personaggio ha
esagerato con la retorica, cercando in ogni modo di offrire un finale positivo.
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