Lo schiavista


“Lo schiavista” è il libro con cui Paul Betty ha affrontato a modo suo la questione del razzismo in America. Quel a modo suo fa riferimento alla trama di questo romanzo, non un semplice trattato su omicidi e discriminazioni, ma un feroce affresco in chiave satirica del segregazionismo ai tempi odierni.

Il libro si apre in tribunale, davanti alla Corte di Giustizia americana. Il caso è: Me contro gli Stati Uniti d’America. L’Io che si contrappone agli USA è Bonbon Me, che nonostante l’involontario cognome egocentrico, è un semplice contadino di una città californiana, accusato di aver ristabilito lo schiavismo. Ah, Bonbon è nero.

"So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato, incurante delle regole di mercantilismo e delle prospettive di salario minimo. Non ho mai svaligiato una casa, né rapinato un negozio di alcolici. Non mi sono mai seduto in un posto riservato agli anziani su un autobus o su un vagone della metropolitana strapieni, per poi tirare fuori il mio pene gigantesco e masturbarmi fino all’orgasmo con un’espressione depravata è un po’ avvilita sul volto. Eppure eccomi qui, nelle cupe sale della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, con l’auto, quasi per ironia della sorte, parcheggiata in divieto di sosta su Constitution Avenue, le mani ammanettate dietro la schiena, il diritto di restare in silenzio che mi ha detto addio da un bel pezzo; seduto su una sedia dall’imbottitura spessa che, proprio come questo paese, non è affatto comoda come sembra".

Questa è la premessa dello Schiavista e da questo climax iniziale si dipana in un lungo flashback la storia di Bonbon. Figlio di un professore, Bonbon non frequenta le scuole ma viene indottrinato dal padre e fin da piccolo è preda dei suoi esperimenti per valutare il continuo rapporto tra bianchi e neri.
Il padre di Bonbon è conosciuto come “l’uomo che sussurra ai negri”, poiché il suo mestiere consiste nel sussurrare nelle orecchie dei neri che si vogliono suicidare per farli desistere.
La crescita continua di Bonbon è fermata dal momento in cui raggiunge la maturità: l’omicidio per cause fortuite del padre. Senza più una guida, Bonbon si trova a dover affrontare la sua vita e soprattutto a raccogliere l’eredità del padre.
Se per lavoro è un contadino, Bonbon si convince di poter fare di più per supportare la causa di suo padre, rivitalizzare il suo quartiere, ormai sparito dalle mappe, e dare forza alla sua gente.
Nella sua missione Bonbon è aiutato dal suo amico Hominy, un vecchio attore ormai dimenticato che, in seguito ad un tentativo di suicidio andato a male, si autoproclama suo schiavo debitore.
L’unica idea veramente forte che viene a Bonbon è ripristinare il segregazionismo, per dare una ragione ai neri di identità, orgoglio in una differenza imposta e non voluta. L’esperimento parte dal basso, prima riserva qualche posto ai bianchi sul bus, poi crea una scuola fittizia per bianchi, per perimetrare tutto il quartiere permettendo l’ingresso solo ai neri.

“L’apartheid aveva riunito i sudafricani; per quale motivo non avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto su di noi?”

Tutto queste azioni risvegliano la partecipazione della gente nel quartiere e creano quella fratellanza che si era andata perduta.
Lo scopo della lettura di un libro come questo non è certo nella trama, usata come mero strumento narrativo. Ciò che impreziosisce la narrazione è la scrittura ironica e politicamente scorretta, piena di riferimenti alla cultura americana, sia per citazioni che per insulti. Il libro tramite l’iperbole dello schiavista descrive una situazione più attuale di quanto si possa immaginare e lascia al lettore dilemmi su cui riflettere.

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