La vita agra è un romanzo di
Luciano Bianciardi sugli anni del miracolo economico italiano.
Il protagonista è un
intellettuale che si trasferisce dalle campagne toscane a Milano. Il motivo del
suo trasferimento è completamente ideologico. Nel suo paese di origine c’è
stata una catastrofe sul lavoro: un gruppo di 43 minatori è rimasto ucciso in
un incidente provocato dai tagli decisi dai dirigenti. Il suo viaggio è alimentato
dalla voglia di rivalsa, il protagonista vuole vendicare i 43 morti, facendo
saltare in aria il simbolo del potere, il grattacielo della compagnia.
Il protagonista ritiene infatti
che l’incidente sia da ascrivere completamente al datore di lavoro che, disinteressato
dal continuare ad investire in perdita, ha preferito pagare i risarcimenti alle
vedove dei morti e chiudere, rispetto al rinnovare la miniera.
“Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare
il torracchione di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale
stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni
assistenziali, dove la cartella personale di Femia, di Calabrò, di tutti e
quarantatré i morti del quattro maggio. Chiedendomi dove, in che cantone, in
che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il
metano da saturare tutto il torracchione. […] La missione mia era questa: far
saltare tutti e quattro i palazzi”.
L’intenzione di distruggere il
“torracchione di vetro e di cemento” che ospita gli uffici direzionali
dell’azienda lo porta a Milano, facendogli abbandonare la moglie e il figlio. A
Milano si ritrova nell’Italia del cosiddetto miracolo economico. C’è attivismo
per le strade, sono tutti propensi a fare affari, tutti spinti da un
instancabile ottimismo. Questo clima è tuttavia insidiato da un venir meno dei
rapporti sociali tra le persone, sempre meno attente a parlare tra loro, a preoccuparsi
per gli altri.
“Direte che se finora non mi hanno mangiato le
formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando? È vero, e di mio ci
aggiungo che questa è a dire parecchio una storia mediana e mediocre, che tutto
sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano e stanno zitti.
Eppure proprio perché mediocre a me sembra che valeva la pena di raccontarla.
[…] un ubriaco muore di sabato battendo la testa sul marciapiede e la gente che
passa appena si scansa per non pestarlo. Il tuo prossimo ti cerca soltanto se e
fino a quando hai qualcosa da pagare. Suonano alla porta e già sai che sono lì
per chiedere, per togliere.”
I piccoli gesti della nuova vita
quotidiana destabilizzano il protagonista, sballottato in un ambiente
totalmente estraneo. Il viaggio di andata e ritorno dal lavoro fatto in tram è
solo occasione di trambusto, non di socialità. Le persone non sembrano badare
alla rivoluzione che lui propone, e la sua vicenda viene bollata come antica, non
più degna di interesse.
Il protagonista va a convivere
con una donna che conosce durante una manifestazione e il suo spirito
rivoluzionario iniziale si dissolve nell’attivismo della metropoli. La vita della città viene descritta con tratti alienanti,
una gara a quotidiana tra stipendi bassi, spese altissime, ritmi frenetici e
consumismo della società.
Emerge una costante attenzione ad uno
sfrenato consumismo, indotto dal miracolo economico, per cui tutti devono
produrre, tutti devono comprare e consumare in onore del dio della produttività.
“Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima.
Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daranno due per famiglia, e poi una a
testa, daremo anche a un televisore a ciascuno, due televisori, due
frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio
elettrico, la bilancina da bano, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda. A
tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere,
a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi
oppongo.”
Con il passare del tempo, il protagonista si rende conto dell’inattuabilità
del suo piano, ma anche della sua inutilità. Comincia ad uniformarsi a quel
mondo che l’ha attratto con fulgide promesse. Il suo impeto rivoluzionario si
trasforma in una frustrazione dilagante per la società e per sé stesso. Si
rinchiude in casa, non volendo vie di fuga, consapevole della loro inesistenza.
Bianciardi con questo romanzo, va controcorrente, descrivendo l’altra
faccia del miracolo economico italiano. Per farlo usa un io-narratore che con
un’ironia beffarda e dissacrante inveisce contro la società industriale e i
suoi prodotti.
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