Ascolto consigliato: “Strangers in the night” – Frank Sinatra
Che effetto fa l’imponderabile davanti ad una scialba e prevedibile
realtà? Trovarsi in una camera da letto, soli con una donna sconosciuta al
proprio fianco, pronti per amarsi, quando ecco che avviene. Il prevedibile
lascia il passo all’incredibile, all’incantesimo del reale. Una morte, inattesa
e fulminante. Come reagire?
È da un incipit folgorante che parte il romanzo di Javier Marías. Il
protagonista di “Domani nella battaglia pensa a me” è Victor Francés, un ghost
writer spagnolo, che si ritrova in camera da letto con Marta Téllez. I due si
conoscono appena e conclusa la cena, resa poco intima dai pianti dal figlio di
lei, si mettono a letto eccitati per il loro amore. La loro storia è
clandestina, Marta è sposata ma suo marito è a Londra per lavoro.
La situazione sembra avere un finale scontato, quando all’improvviso
Marta muore. Cosa può fare Victor? Non ha fatto nulla di male, la morte è
avvenuta per cause naturali, non certo per colpa sua, ma la domanda resiste.
Cosa fare? D’altronde quasi non la conosceva, non conosce i suoi vicini o la
sua famiglia, nessuno da avvertire e anche se conoscesse qualcuno, che dire?
Come spiegare le circostanze?
La situazione è descritta con tensione crescente da Marías, che
raffigura il personaggio di Victor in una scena surreale, ma non per questo
fittizia. I pensieri di Victor cominciano ad offuscarsi a causa della
situazione, ma preso dal suo istinto scappa, considerando la fuga come la
migliore soluzione.
Questo potrebbe chiudere la faccenda, ma in realtà rappresenta solo
l’inizio. Victor potrebbe mettersi alle spalle Marta, dimenticare tutto, per
quanto difficile. Ma la curiosità prende il sopravvento e cattura Victor in una
prigione le cui sbarre sono non tanto le curiosità ma i suoi desideri e le sue
paure. Victor si ritrova intrappolato in una sorta di incantesimo che lo lega
alla vicenda. Vuole conoscere la famiglia di Marta per comprendere le loro
relazioni, ricostruire una storia, quasi a voler conoscere veramente quella
donna che gli è morta a fianco, senza che neanche la conoscesse.
C'è un verbo inglese,
to haunt, c'è un verbo francese, hanter, molto imparentati e piuttosto
intraducibili, che denotano ciò che i fantasmi fanno con i luoghi e con le
persone che frequentano o spiano o rivisitano; inoltre, secondo il contesto, il
primo può significare incantare, nel senso féerico della parola, nel senso di
incantamento, l'etimologia è incerta, ma a quel che sembra entrambi provengono
da altri verbi dell'anglosassone e del francese antico che significavano
dimorare, abitare, sistemarsi permanentemente (i dizionari sono sempre
divertenti, come le carte geografiche). Forse il legame poteva limitarsi a
questo, a una specie di incantamento o haunting, che a ben vedere non è altro
che la condanna del ricordo, del fatto che gli eventi e le persone ritornino e
appaiano indefinitamente e non cessino del tutto né passino del tutto né ci
abbandonino mai del tutto, e a partire da un certo momento dimorino o abitino
nella nostra testa, da svegli o in sogno, si stabiliscano lì in mancanza di
luoghi più confortevoli, dibattendosi contro la propria dissoluzione e volendo
incarnarsi nell'unica cosa che rimane loro per conservare il vigore e la
frequentazione, la ripetizione o il riverbero infinito di ciò che una volta
fecero o di ciò che ebbe luogo un giorno: infinito, ma ogni volta più stanco e
tenue. Io mi ero trasformato in quel filo.
Victor si fa commissionare un lavoro dal padre di Marta, in modo da
conoscerlo con una scusa plausibile. La conoscenza avviene con tutta la
famiglia, da Luisa, la sorella della defunta, ad Eduardo, il marito vedovo.
Ovviamente i famigliari sono in stato di lutto e le emozioni sono amplificate:
la disperazione per la morte si lega alla frustrazione del sapere che c’era uno
sconosciuto con Marta mentre moriva.
La recita dura poco, Victor è afflitto dalla vicenda al punto da non
dormire la notte. Le sue menzogne lo ossessionano e lo spingono a confessare la
verità a Luisa. Con lei lo scrittore si apre, racconta ogni dettaglio e ogni
mistero irrisolto si scioglie. Resta solo da affrontare Eduardo, il vedovo
affranto dal dolore della morte e del tradimento. Il loro dialogo mette di
fronte i due amanti “cogiacenti” di Marta. Eduardo ha vissuto due giorni a
Londra, senza sapere che la moglie fosse morta. Nella sua ignavia ha vissuto
con l’amante, per liberarsi di un fantomatico figlio. I due dolori si
confrontano, ognuno a modo suo ha fronteggiato la morte. La loro storia,
all’inizio frammentata come un puzzle dai singoli punti di vista, è ora
completa.
La storia che ci descrive Marías sembra essere, escludendo l’incipit,
abbastanza semplice sul piano dell’intreccio narrativo. Ma la sua narrazione
non è fatta solo da fatti, ma soprattutto da riflessioni ed esitazioni. La sua
scrittura è prolissa e tortuosa, fatta di frasi interminabili e pensieri in
subbuglio.
Il flusso di coscienza del protagonista è restituito da lunghi periodi
interconnessi tra loro. Lo stato di incantamento e di smarrimento del
protagonista lo porta ad agire tormentato dai suoi pensieri e da quelli degli
altri. Ci sono lunghi tratti in cui Victor si immagina cosa possono pensare le
persone a fianco a lui, senza mai giungere veramente ad una conclusione.
Penso che il romanzo parta sicuramente da un’ottima idea,
concentrandosi poi sul concetto di incantamento che lega o meglio costringe
Victor a legarsi alla famiglia di Marta. Tuttavia la bontà di queste due
intuizioni vengono controbilanciate da due elementi critici: in primis una
scrittura fitta e ridondante fino al parossismo, e in secondo luogo la presenza
di alcuni capitoli decisamente pleonastici. Alcune scene, infatti, sono
superflue per lo sviluppo della storia e aggiungono veramente poco contenuto
anche perché posizionate anteriormente ad essa. Un esempio di questo concetto è
la notte che Victor passa con la prostituta e in cerca della sua ex moglie. Un
altro esempio riguarda tutta la parte della scrittura di un discorso per il Re,
parte che ritengo quasi riempitiva, visto che potrebbe essere ridotta senza
tralasciare i discorsi del Re sulla memoria e sui lasciti.
Fatte le dovute critiche, rimane comunque un eccellente romanzo, con un’analisi
del tema dei ricordi che parte dalla citazione di shakespeariana memoria. Domani
nella battaglia pensa a me, sembra il messaggio di una donna al marito il
giorno prima della battaglia, ma in realtà, come si scopre nel romanzo, la vera
frase è “domani nella battaglia pensa a me, cada la tua spada senza filo,
dispera e muori” e viene detta dalla regina al marito che l’ha fatta uccidere.
Il tema della memoria e dell’introspezione del ricordo è il cardine
del romanzo, insieme all’incantamento che subisce Victor e che lo lascia
spiazzato per tutto il tempo.
“Ero più angosciato di
quanto lo fossi la notte precedente, più di quanto me n’ero andato all’alba.
Sapevo quel che era accaduto e allo stesso tempo mi sembrava privo di senso e
ridicolo che fosse accaduto, quel che succede non succede del tutto fino a
quando non viene scoperto, fino a quando non lo si dice e fino a quando non lo
si sa, e nel frattempo è possibile la trasformazione dei fatti in puro pensiero
e in puro ricordo, il loro lento viaggio verso l’irrealtà è cominciato nello
stesso momento in cui si sono verificati; e il conforto dell’incertezza, che è
a sua volta retrospettiva.”
Victor non sembra realizzare quello che è successo, anzi lo realizza,
ma pensa di ricordarlo o poterlo ricordare in maniera differente. Indicativo è
il fatto di rubare il nastro della segreteria telefonica, un modo per
ricostruire nella sua mente un passato, quello di Marta, quella donna che non
aveva mai conosciuto, quello di quella stessa sera, quella che l’ha turbato con
una morte.
La memoria è labile e la sua debolezza, mista magari ai patimenti di
un amore, possono straniare le persone. L’incantamento descritto da Victor può
essere tutto rinchiuso tutto qui: come mai si interessa alla questione di Marta
e alla sua famiglia, quando in realtà potrebbe far finta di nulla? Tutto ciò
che riguarda la sua storia lo cattura e non sa neanche lui perché agisce e a
cosa vuole arrivare.
“In realtà non ne ho di
intenzioni, mi è successa una cosa orrenda e ridicola e non smetto di pensarci
come se fossi incantato; non voglio verificare niente perché non ho niente da
verificare, non voglio salvare nessuno perché lei ormai è morta, non voglio
ottenere niente perché non c’è niente da ottenere, al massimo forse rimproveri
o l’odio ingiustificato di qualcuno, di quel Deàn per esempio, o dello stesso
Téllez o dei suoi figli vivi, o perfino di un certo Vicente dispotico e
sboccato che se la faceva senza troppi misteri, io non ci sono riuscito nemmeno
una volta, la prima. Non voglio nemmeno sostituirmi o nuocere a qualcuno,
usurpare qualcosa né vendicarmi di qualcuno, espiare una colpa né proteggere o
tranquillizzare la mia coscienza né fugare la mia paura, non ce n’è motivo, non
ho fatto niente né mi hanno fatto niente e il male o il peggio ormai è successo
senza causa, non mi spinge nessuna di quelle cose che sono quelle che sempre ci
spingono, verificare, salvare, ottenere, sostituire, nuocere, usurpare, vendicare,
espiare, proteggere o tranquillizzare e fugare; farmela. E anche se non c’è
niente qualcosa ci spinge, non è possibile rimanere tranquilli, al nostro
posto, come se dal nostro respiro emanassero rancori e desideri vuoti, tormenti
che ci saremmo potuti risparmiare. E adesso non soltanto non c’è niente che io
voglia sapere ma che sono io a dover nascondere, sono io quello di cui si
possono verificare le azioni e anche i passi o da cui strapparmi una
descrizione e costringermi a raccontare, le mie azioni passive e i miei passi
avvelenati.”
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