Ascolto consigliato “London calling”, The Clash
Si può raccontare una città
famosa per essere il rifugio forzato da migliaia di migranti senza parlare dei
migranti? Si può se chi lo fa si chiama Emmanuel Carrère. “A Calais” è sia un reportage
giornalistico sia un piccolo racconto dello scrittore francese.
Calais è una cittadina francese a
ridosso della Manica, l’ultimo passaggio per arrivare nel Regno Unito.
Dall’inizio del nuovo millennio è diventata tristemente famosa per essere una
città rifugio di migranti e rifugiati che cercano di sorpassare il mare e
raggiungere l’Inghilterra. Calais rappresenta l’ultimo ostacolo prima di quella
che considerano una terra di promesse e possibilità. Tuttavia Calais più che un
passaggio rappresenta un ostacolo ed una prigione, un muro simbolico che divide
e che è difficile da superare. Tutto ciò ha portato alla creazione della
cosiddetta “Giungla di Calais” una sorta di ghetto dentro la città dove trovano
rifugio i migranti bloccati alla frontiera. Il ghetto diventa un luogo di
emarginazione e degrado, con tutti i clichè tipici della situazione: i migranti
vengono considerati un pericolo per la popolazione, impaurita dalla delinquenza
e dall’incuria.
In questa situazione Carrère
prova a raccontare Calais guardandola con un punto di vista diverso da quello
delle narrative di genere classiche: non parla dei migranti, ma degli abitanti
di Calais, come vivono la giungla e cosa percepiscono essere un pericolo o
meno.
Carrère parla con le persone di
Calais, ne raccoglie le opinioni e ne setaccia le paure e le ipocrisie. Un punto
di vista comune tra i cittadini riguarda la nostalgia per i fasti andati,
quando le fabbriche tessili portavano una grande quantità di lavoro. La
disoccupazione crea un clima di astio tra le persone che inevitabilmente si
dividono in due fazioni: pro e contro migranti. Gli ottimisti sono stufi di
dover parlare solo di immigrazione e vorrebbero porre l’attenzione su politiche
di sviluppo per il lavoro. I pessimisti lamentano l’insicurezza sociale, che
crea pericolo e degrado per via dei migranti.
In tutto questo ambiente non
mancano le fronde più estremiste della popolazione: in città vengono
organizzate ronde notturne, fomentate da un clima di odio razziale e dalla
paura di stupri.
Calais nonostante la Giungla non
è solo la Giungla, ma è composta da centri caratteristici ed è impreziosita da
un murales di Banksy. Il murales rappresenta Steve Jobs in una posa da
viaggiatore con un sacco a mo’ di valigia e un vecchio computer in cerca di
fortuna:
“Il murale che ritrae Steve Jobs con una sacca e un computer vintage,
ci ricorda che all’inizio anche il fondatore della Apple era un bambino
arrivato negli Stati Uniti da Homs, in Siria. Certo, la situazione non è
esattamente la stessa, il parallelo è forzato, tanto più che Steve Jobs era
solo di origine siriana, è nato a San Francisco ed è stato adottato, ma non
importa: ci saranno migranti che moriranno cercando di raggiungere l’Inghilterra,
altri che vivranno ai margini dell’Europa il loro destino di umiliazione e
povertà, ma questo non vieta ai siriani e agli afgani che sono arrivati a Calais
affrontando rischi di ogni genere e che adesso, nella Giungla, ne vedono di
tutti i colori di considerare la Giungla come un momento della loro vita, una
prova passeggera, un trampolino verso la realizzazione dei loro sogni. Molti bianchi
del Beau Marais, che vivono e hanno sempre vissuto di sussidi di disoccupazione,
si trovano in una situazione forse meno precaria ma per certi versi molto più
stagnante, più irrimediabile, e io mi chiedo se questo non incida, in modo
consapevole o meno sul loro risentimento.”
P.s.
Il murales è stato prima
sovrascritto parzialmente e infine gli si è affiancata la scritta London
Calling, poiché tutti i migranti che arrivano a Calais e che cercano una svolta
nel Regno Unito, sono attratti dal richiamo di quella Londra che chiama ma che
non li accoglie.



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